Rubrica: Che cos'è...?

Che cos'è la critica dell’Industria Culturale?

"La critica dell’industria culturale [...] non smette di avere un valore centrale per riflettere sulle esperienze estetiche a cui siamo sottoposti quotidianamente."

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    L’avanzare del nazionalsocialismo, l’affermarsi delle leggi razziali e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale resero, com’è noto, l’Europa un luogo inospitale per molti uomini e donne, costringendoli alla fuga oppure rendendoli vittime di una persecuzione violenta. Fra questi anche molti intellettuali tedeschi, sia di origine ebraica che di impostazione critica rispetto al regime, furono costretti ad allontanarsi dapprima dalla Germania e poi dalla stessa Europa, trasferendosi in Sud America come accadde fra gli altri a Roger Caillois, oppure in Turchia, ove visse dal 1936 al 1947 Erich Auerbach, oppure in Israele, dove molti intellettuali di origine ebraica trovarono accoglienza dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Questo movimento di studiosi, molti dei quali con una solida formazione accademica, non fu certo privo di effetti. Molti furono infatti gli sviluppi del pensiero scaturiti da un lato dalla riflessione critica sui totalitarismi e, dall’altro, dal contatto con luoghi e sistemi economici, culturali e sociali differenti.

    Una delle istituzioni che risentì di questi spostamenti, rimanendo sempre attenta all’elaborazione di percorsi di pensiero capaci di interrogarsi sul contemporaneo, fu senz’altro la cosiddetta Scuola di Francoforte, ovvero il gruppo di intellettuali legati all’Istituto per la Ricerca Sociale. L’Istituto, nato nel 1922 a Francoforte grazie alla donazione dell’industriale H. Weil e che riuniva pensatori legati al marxismo non ortodosso, subì infatti molteplici spostamenti e negli anni della guerra rimase punto di riferimento per molti migranti tedeschi. Dapprima spostatosi a Ginevra, ebbe poi la propria sede a Parigi, per stabilirsi infine negli Stati Uniti, altro luogo che molti intellettuali e artisti tedeschi avevano cercarono di raggiungere per trascorrervi il proprio esilio.

    E fu proprio negli USA, a New York e poi Los Angeles, dove l’Institut für Sozialforschung ebbe sede fino al termine della guerra, che due fra i suoi più importanti esponenti, cioè Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, pubblicarono la Dialettica dell’illuminismo, un testo fondamentale per lo sviluppo della filosofia del secondo Novecento che tutt’ora rappresenta una pietra miliare per il pensiero critico. Composto di un capitolo principale sul concetto di illuminismo, una serie di Excursus su varie tematiche a esso connesse e alcuni brani afferenti che non trovarono direttamente collocazione nelle sezioni precedenti, la Dialettica dell’Illuminismo risentì profondamente sia dell’urgenza rappresentata dalla barbarie nazionalsocialista, sia del contatto con il capitalismo monopolistico statunitense dovuto all’emigrazione dei suoi autori, sviluppando quindi una lettura critica del capitalismo e del contemporaneo capace di comprendere l’assimilazione all’‘affermativo’ e al ‘sempre identico’ tipica tanto dei sistemi totalitari che di quelli liberali così come si andavano affermando in particolare nel capitalismo americano.

    Una delle parti di cui si compone l’importante saggio fu quindi direttamente dedicata da Horkheimer e Adorno ad un problema legato strettamente ai modi di produzione statunitensi e di cui ebbero un’esperienza privilegiata proprio negli anni del loro esilio americano. Si tratta del problema dell’industria culturale e della sua critica, il cui compito è quello di mostrare la contraddizione insita nell’industria culturale nella quale si manifesta «la regressione dell’illuminismo nell’ideologia che ha la sua espressione canonica nel cinema e nella radio».1 I principali oggetti dell’analisi di Adorno e Horkheimer sono infatti sia i media quali il cinema, la radio, la televisione, sia la letteratura, il cinema e la musica in genere quando esse sono standardizzate, adattate a tali media e trasformate in meri oggetti di consumo o merci. Si può intendere questo lavoro di critica come un esame della contraddizione insita nella popular culture che, prendendola seriamente, mira a far emergere come «il suo vero contenuto si esaurisce nella feticizzazione dell’esistente e del potere che controlla la tecnica».2

    La critica dell’industria culturale deve infatti mostrare come la dialettica dell’illuminismo, nella quale «il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività»3, si manifesti nell’industria culturale come estraniazione dal prodotto e alienazione del consumatore di prodotti culturali. La critica dell’industria culturale diviene quindi una modalità di approccio ai prodotti culturali capace di metterne in luce il carattere di merce e di smascherarli come prodotti commercializzati che, come tali, rinunciano al proprio contenuto di verità per divenire una costante ripetizione capace solo di fornire l’illusione dell’individualità al consumatore. L’approccio seguito da Horkheimer e Adorno, come si comprende già da queste prime battute, è fortemente critico nei confronti della produzione culturale di massa e la intende fondamentalmente come una mistificazione che, nascondendosi dietro l’affermazione secondo la quale «non sono altro che affari»4, legittima il proprio operato che è di carattere completamente opposto all’arte.

    Standardizzazione, pseudo-individualizzazione dei prodotti e massificazione dei consumatori sono dunque i principali processi mediante i quali si sviluppa la mass culture, laddove la critica dell’industria culturale ha il compito di rilevare come gli elementi che la compongono nascondano questi processi dietro la cortina della piacevolezza riuscendo a trarre profitto dal tempo libero eliminandolo al contempo. L’operaio americano, nell’ottica della Dialettica dell’illuminismo, nel proprio tempo libero viene cooptato da un’industria del divertimento e della cultura che non fa altro che offrirgli un prodotto «predigerito», in cui ogni elemento deve sempre confermare la totalità a discapito della potenzialità del particolare. Questo processo viene ritrovato dagli autori in molti prodotti, dai film pieni di clichés dell’industria americana ai ritmi sincopati e alle pseudo-improvvisazioni del jazz: tutti gli elementi concorrono a creare un divertimento che riesce sempre a conciliare il particolare con la totalità eliminando la contraddizione ed eliminando l’elemento negativo. I consumatori nell’industria culturale sono quindi mero «materiale statistico» che non testimonia alcuna differenza ma solo il livello di assimilazione raggiunto in cui ognuno deve incasellarsi in una categoria di compratore predeterminata sulla base delle esigenze del mercato. Anche l’opposizione alla mercificazione, al consumismo, alla popular culture in quanto tale rischia sempre di essere nient’altro che una categoria di consumo, cioè di essere assimilata e assorbita da quest’ultima. Va infatti rilevato che, nonostante vi sia una certa vulgata al riguardo, l’opposizione di Adorno e Horkheimer alla popular culture non è una semplice opposizione ai prodotti della cultura ‘bassa’. Vi è anzi, nella loro concezione, una forma di rispetto per la cultura popolare intesa come necessaria forma complementare rispetto all’arte ‘colta’ o ‘seria’, mentre è viva l’opposizione a diversi aspetti della cosiddetta «cultura alta» che, nell’epoca presente, finisce spesso per ridursi essa stessa a una mera merce offerta a uno specifico ambito di consumatori.

    Per chiarire questo aspetto è bene fare riferimento a un testo più tardo di Adorno e contenuto nella raccolta Parva aesthetica. Il testo in questione si intitola Ricapitolazione sull’industria culturale e Adorno chiarisce qui proprio il senso dell’introduzione del termine «industria culturale», coniato da lui e da Horkheimer, che andò a sostituire il termine precedentemente usato «cultura di massa».5 L’obiettivo di questa sostituzione fu infatti proprio quello di operare una differenziazione fra cultura popolare e popular culture, eliminando ogni ambiguità e specificando come nella cultura popular venga completamente meno l’elemento di spontaneità che invece sarebbe presente in quella popolare. L’oggetto della critica dell’industria culturale è quindi propriamente un oggetto definito dalla sua produzione come preconfezionato, frutto di una logica industriale che fa del consumatore il proprio «oggetto», standardizza il prodotto e adotta tecniche di distribuzione razionalizzate: un prodotto culturale inteso come merce tout court.

    Lungo la loro indagine dunque Horkheimer e Adorno analizzano varie forme di produzione culturale, mettendo sempre in luce come esse mantengano inalterate una serie di caratteristiche peculiari dei prodotti dell’industria culturale, rendendo possibile rintracciare gli elementi peculiari di questa specifica forma di produzione in molti altri media con un’operazione filosofico-sociologica tutt’ora valida. Per chiarire meglio il meccanismo attraverso il quale viene a formarsi il prodotto dell’industria culturale può essere utile calarsi in un esempio concreto, come quello offerto dall’analisi che ne fece Adorno in un famoso articolo del 1941: Sulla popular music. Questo articolo, nato da una collaborazione fra la sede americana dell’Institut fur Sozialforschung e l’Office of Radio Research della Columbia Univeristy, porta avanti un lavoro di critica dell’industria musicale già iniziato da Adorno con i saggi Sul jazz e Sul carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto (scritti in risposta al celebre saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), e una parte delle sue argomentazioni confluirà proprio nel capitolo sull’industria culturale di cui abbiamo parlato, nel quale proprio la musica sarà uno dei temi principali ai quali Horkheimer e Adorno dedicheranno la propria attenzione. Il saggio, dedicato quindi alla popular music – categoria entro la quale Adorno inserisce alche il jazz –, cerca di dare una caratterizzazione del fenomeno così come si dà nella sua contemporaneità, analizzandolo in modo rigoroso e facendone al contempo una critica serrata.

    Il carattere fondamentale di questa tipologia di musica è ritrovato da Adorno nella sua standardizzazione, ovvero nella sua necessità di seguire delle regole predeterminate: ad esempio, le battute del chorus devono essere sempre trentadue così come l’estensione massima deve essere di un’ottava e una nota6. Attraverso l’assimilazione a queste ed altre regole, la canzone – studiata per essere un successo commerciale – riesce sempre a farsi percepire come familiare, riconducibile al già noto anche quando si finge differente. La standardizzazione della produzione musicale, dunque, non solo produce il ‘sempre identico’ nella musica, bensì mira anche «a reazioni standardizzate»7 da parte dell’ascoltatore. Per esempio, nel momento in cui vi siano dei dettagli complessi o delle infrazioni alla regola, essi sono sempre volti a creare nell’ascoltatore un meccanismo che faccia percepire ancor meglio la norma. Da un lato la musica pop deve saper risvegliare l’attenzione, ma dall’altro deve sempre essere riconducibile al modello e allo stile, processo quest’ultimo mediante il quale «la popular music spoglia l’ascoltatore della sua spontaneità e promuove riflessi condizionati. […] non solo non gli chiede lo sforzo di seguire il flusso concreto, ma gli offre effettivamente gli stessi modelli entro cui ciò che di concreto ancora rimane possa ricondursi».8

    Questo contrasto fra stimolante e sempre identico dà vita anche ad un secondo fenomeno tipico dell’industria culturale: la pseudo-individualizzazione. Con questo termine Adorno indica il processo mediante il quale la produzione culturale di massa viene dotata di una certa aura di libera scelta. «La standardizzazione delle canzoni di successo tiene per così dire i clienti in riga ascoltando per essi. La pseudo-individualizzazione, per parte sua, li tiene in riga facendo scordare loro che ciò che ascoltano è già stato ascoltato o predigerito per loro».9 Questo meccanismo di falsa individualizzazione, atto a sottomettere quindi l’ascoltatore alla standardizzazione senza nemmeno fargliela percepire, viene trovato per esempio da Adorno nell’improvvisazione jazz, fintamente esente da schemi, così come nella differenziazione ossessiva fra i vari generi di musica popular (sempre più settorializzati e chiaramente distinguibili gli uni dagli altri, così come distinguibili sono i loro ascoltatori divisi in fazioni), nel meccanismo dello star system così come negli elementi del cinema di consumo.

    La critica adorniana della musica popular si focalizza inoltre direttamente sulle modalità attraverso le quali viene imposta la musica popular dall’industria culturale: il plugging, ovvero la ripetizione incessante di un modello atta a favorirne l’accettazione, e il glamour, ovvero il caratteristico «incanto» che si sviluppa attraverso una serie di processi atti a rendere unico ogni merce standardizzata. In particolare, quest’ultima caratteristica, facilmente riscontrabile anche oggi in gran parte dei processi di commercializzazione delle merci, si attua attraverso un certo uso della rotondità del suono, dei colori, capace di ricreare una sensazione di conquista e di identificazione dell’acquirente con il successo del prodotto acquistato, così come un certo comportamento infantile.10

    Attraverso l’esempio dell’analisi adorniana della musica popular, possiamo comprendere come la critica dell’industria culturale proceda a mettere in luce le contraddizioni interne alla stessa industria culturale e a evidenziarne le differenze rispetto alla produzione culturale «seria», mostrando come una serie di processi di commercializzazione non siano altro che riproposizioni della dialettica dell’illuminismo che da trionfo della ragione diviene mitizzazione e pensiero magico, nascosto però dalla falsa dialettica di individuale e totalità tipica di ogni pensiero totalitario e di ogni processo atto a eliminare le possibilità di produrre il radicalmente nuovo che potrebbe mettere veramente in discussione l’esistente.

    La critica dell’industria culturale, che a partire dagli anni ’40 mise in luce la vita falsa dei prodotti dell’industria culturale che allora stava prendendo piede, non smette di avere un valore centrale per riflettere sulle esperienze estetiche a cui siamo sottoposti quotidianamente: seppure i media siano differenti, non faticheremo a ritrovare in molti fenomeni culturali gran parte degli elementi di cui abbiamo parlato. Quegli stessi elementi che Adorno mostrò chiaramente nel loro risvolto di dominio sono infatti ormai standard della produzione di beni mediali, che sempre più adoperano la tecnica e le tecnologie come forma di distribuzione commerciale piuttosto che come strumento di liberazione. Di fronte alla serializzazione e standardizzazione dei prodotti, siano essi serie tv, contenuti digitali, opere di artisti messe in mostre sempre più standardizzate e volte a mercificare l’artista anziché rilevarne il potenziale, tenendo a mente il metodo critico della Scuola di Francoforte ci balzano agli occhi i punti nevralgici dell’operazione che abbiamo di fronte e i pericoli in essa insiti.

    Essere in grado di operare una distinzione fra arte ‘seria’ e ‘popular’, fra cultura e industria culturale, significa anche essere in grado di svincolarsi dall’appagamento facile dell’acquiescenza al familiare al quale siamo abituati dal plugging, e così facendo offre quindi la possibilità di ricercare ancora la negazione capace di dare vita al radicalmente nuovo.

    1 Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. R. Solmi, Torino: Einaudi, 2016, p. 8.

    2 Ibidem.

    3 Ivi, p. 17.

    4 Ivi, p. 127.

    5 Cfr. Theodor Adorno, Parva Aesthetica, tr. it. Elena Franchetti, Milano-Udine: Mimesis, 2011, pp. 113-114.

    6 Cfr. Theodor Adorno, Sulla popular music, ed. it. a cura di M. Santoro, Roma: Armando, 2004. p. 67.

    7 Ivi, p. 75.

    8 Ibidem.

    9 Ivi, p. 80.

    10 Cfr. ivi pp. 84-91.