Scritto da Davide De Alexandris (Fondatore e Presidente di NDERS ODV) Frascati 08/04/2025
1.L’Esperienza è un dono, non una prova
Ogni storia di confine custodisce una faglia invisibile. È una crepa da cui filtra una luce che solo una mente capace di sospendere il giudizio riesce a trattenere. Non si richiede soltanto un racconto: si chiede l’ascolto di ciò che il racconto non riesce a esprimere.
Quando qualcuno vive una NDE, attraversa un confine invisibile: un varco che separa il monte dell’ordinario da un altro, vasto, pieno di significato. Tornando da quell’esperienza, non ha il compito di dimostrare che il viaggio è reale. Torna con un dono. Un dono autentico, personale. Non richiede né applausi né credibilità forzata. Chiede soltanto ascolto empatico. La NDE non è una medaglia da appuntarsi al petto. Non è un trofeo. Non è un diploma spirituale che innalza chi l’ha vissuta sopra le altre esistenze. Spesso, anzi, è una ferita luminosa: ricorda, a chi la vive e a chi l’ascolta, che l’esistenza è qualcosa di immensamente più vasto, profondo e misterioso di quanto appaia. Proprio per questo l’esperienza va offerta, non imposta. Chi racconta la propria NDE non deve sentirsi davanti a un giudice, né sotto processo per validare il suo vissuto. Non c’è bisogno di convincere nessuno. Il compito è molto più semplice, e al tempo stesso più difficile: testimoniare con autenticità. Senza abbellimenti, senza tagli comodi sugli aspetti più scomodi o inspiegabili. Raccontare la propria storia significa condividere quel dono, sapendo che: sarà accolto da chi è pronto, sarà ignorato da chi non lo è, e sarà frainteso da chi non vuole vedere. Ma questo fa parte — anch’esso — del dono.
2.Mettere la vulnerabilità al centro di tutto
Per quanto si sia tornati “indietro” da una NDE, in realtà non si è mai davvero tornati indietro. Si ritorna cambiati, segnati da un riverbero che vibra oltre il linguaggio comune. Ogni parola, ogni passo, ogni azione porta da quel momento in poi il segno di un altrove custodito — spesso, per troppi anni — nel silenzio.
Molti credono che le NDE siano solo luce, estasi o qualche forma di rivelazione. È vero, ma solo in parte. Sono anche trauma, rottura, esposizione dell’io più profondo.
Chi vive un’esperienza di confine attraversa una soglia di massima vulnerabilità, nel corpo e nella psiche. È un incontro con una realtà ignota che spoglia di tutte le certezze convenzionali che fino a quel momento hanno sorretto la vita. E lascia, almeno all’inizio, incapaci di incasellare quanto vissuto in categorie conosciute e rassicuranti.
Questa vulnerabilità non deve essere rimossa dal racconto. Non va mascherata dietro discorsi esclusivamente edificanti o miracolistici. Anzi: è proprio questa vulnerabilità a rendere la NDE un’esperienza trasformativa senza pari.
Sentirsi piccoli di fronte a un’immensità incomprensibile. Riconoscere i propri limiti umani. Rivedere il significato della vita attraverso le potenti lenti dell’umiltà di chi sa di non sapere.
Il sapere, ma anche la paura, lo smarrimento, la tristezza o la nostalgia per quei luoghi sconosciuti, fanno parte integrante di questa potente esperienza spirituale.
Senza tale vulnerabilità, la narrazione di una NDE rischia di diventare uno sterile esercizio di stile, un apporto moralistico o una rappresentazione artefatta del mistero umano custodito nella domanda “Chi sono?”.
Ecco perché è necessario legittimare anche il lato “difficile” delle esperienze: la paura, la tristezza, il senso di smarrimento, il bisogno di tornare e il dolore del ritorno.
3.L’esperienza umana è più grande delle teorie
Quando tocchi il bordo dell’infinito, scopri che il linguaggio umano è fatto di approssimazioni, ombre e inadeguatezze. Raccontare la propria storia diventa quindi una forma di tradimento della storia stessa, perché non potrai mai comunicare tutte le sfumature che hai vissuto: ti mancano le parole di un’esperienza condivisa. Eppure, tra le fessure di questo tradimento, può nascere una nuova forma di verità.
Davanti a una NDE, la mente umana — inevitabilmente condizionata da cultura, religione o scienza — cerca subito di incasellare tale esperienza in qualcosa di noto:
- “È stato solamente un sogno.”
- “È chimica, il tuo sistema endocrino era impazzito.”
- “È la conferma che le Sacre Scritture dicono il vero.”
- “È la prova che esiste l’aldilà, oltre ogni ragionevole dubbio.”
Ma nonostante queste pressioni, la NDE resiste. Resiste alla riduzione, non accetta etichette ed eccede ogni possibile categoria. Tali esperienze superano ogni tentativo di spiegazione, qualunque essa sia.
Questo non significa, però, che non si possano studiare, riflettere o costruire ipotesi attorno ad esse. Significa piuttosto che bisogna rendersi conto di una sproporzione tra l’esperienza vissuta e ogni costruzione concettuale che tenta di spiegarla. Nessuna teoria — religiosa o scientifica — può pretendere di possedere la totalità della spiegazione delle esperienze di premorte.
L’esperienza in sé precede il pensiero, e contiene molto più di quanto il pensiero riesca a esprimere.
Occorre coltivare l’umiltà epistemologica: ogni spiegazione possibile è una mappa, non il territorio. Se vediamo una montagna che non è presente sulla mappa, non possiamo ignorarla.
Bisogna lasciare spazio all’impalpabile, accettare che esistano aspetti non descrivibili a parole né dimostrabili. Resistere al bisogno umano di usare categorie ideologiche rigide per spiegare tali esperienze è necessario per onorare la loro complessità.
Le NDE chiedono solo una cosa, una semplice cosa: restare “intellettualmente nudi” davanti al Mistero, senza alcuna pretesa di dominarlo. Accettare che l’esperienza sia più grande delle varie teorie che possono essere stiracchiate per spiegarla è un atto di amore indiscusso verso la verità.
4.Le Relazioni sono più reali della nostra individualità
Nel tornare si sperimenta una vertigine mai provata prima: non parliamo di paura o di tristezza.
Parliamo di una sproporzione tra quanto vissuto prima e quanto vissuto dopo.
È come voler versare un intero oceano in una tazza: non riesci a contenere tutto quello che hai vissuto e provato.
Integrare una NDE non significa normalizzarla o banalizzarla: significa imparare a vivere con questo eccesso, accarezzarlo e farlo proprio.
Chi ha vissuto una NDE racconta spesso di riconoscere al proprio fianco delle presenze: cari amati, sconosciuti in qualche modo familiari o guide luminose. Eppure la propria identità personale non è percepita come rigida o isolata dal resto, da quello che ha vissuto, dal luogo in cui è stato, dalle amorevoli presenze che lo hanno accolto. Non esiste più un “io contro il mondo” o “io separato dagli altri”.
Si partecipa a una sorta di fusione, una comunione in cui si scopre — o forse si ricorda — che esistere è esistere in relazione.
L’altro non è un limite al mio essere: è condizione necessaria per il mio essere. Nella visione ordinaria della nostra vita spesso ci immaginiamo come isole autosufficienti, ma le NDE cambiano radicalmente questo paradigma. Noi siamo intrecci di relazioni, fili luminosi tessuti assieme che danno vita a qualcosa di più della semplice somma dei fili.
La memoria di questo legame, anche con chi non abbiamo incontrato su questa terra, rimane profondamente impressa nell’anima di chi ritorna.
Non c’è bisogno di raccontare l’esperienza come un “viaggio solitario”, ma come una riemersione in un tessuto vivente di connessioni. Anche se nella propria esperienza non si è sperimentato direttamente questo intreccio, una volta tornati si vive secondo questo principio. È una sorta di centralità della comunione con il prossimo, che va oltre la semplice sopravvivenza individuale.
Le NDE non sono un singolo viaggio eroico di un eroe che attraversa il nulla sconosciuto: raccontano invece la meraviglia di una appartenenza ben più vasta, un coro silenzioso ma presente, che intona un canto di gioia, perennemente dentro di noi.
La coscienza, sembrano dirci le NDE, va ripensata in un’ottica di fenomeno condiviso, non più come una semplice proprietà privata di un ego isolato dagli altri.
Nella morte, così come nella vita, non siamo mai soli.
5.Non vi è Giudizio, se non in forma di amore compassionevole
Vivere una NDE, viverla davvero, non comporta il rischio di dimenticarla: questo è impossibile. Significa però non trasformarla in una prigione fatta di nostalgia, né in un vessillo da issare come propria bandiera. Viverla davvero significa ricordare senza restare fermi, custodire senza trattenere.
Chi ha vissuto una NDE talvolta racconta di aver rivisto la propria vita intera in un’ottica di rilettura etica del proprio vissuto. Ogni gesto, ogni parola, ogni omissione si svolge davanti agli occhi dell’anima, come un film in cui si è spettatori e protagonisti nello stesso momento. Ma — ed è qui il punto cruciale — non c’è alcuna condanna. Non esiste un dio punitivo, né un implacabile tribunale pronto a comminare l’ergastolo.
È un giudizio che nasce dentro di noi, senza alcuna forma di censura. È un’esperienza di verità totale, ma anche compassionevole, in cui l’anima vede quello che è stato. Lo vede con una lucidità assoluta, provando al contempo un amore che non vuole umiliare, ma solo accogliere.
Si comprende quanto ogni nostra piccola azione abbia avuto un riverbero sulla vita altrui; si percepisce tutto il dolore causato e tutta la bellezza seminata.
Questa consapevolezza non viene usata per punirsi, ma per trasformarsi. Non è un processo in cui si cerca la colpa: è un processo di consapevolezza e di trasformazione.
Nel narrare le NDE non c’è bisogno di descrivere il giudizio basandosi su categorie morali terrestri come colpa, premio o punizione: bisogna piuttosto evidenziare la natura trasformativa della revisione della vita. È un atto di amore verso se stessi e verso gli altri. Lo studio di tali esperienze esplora dinamiche di auto-rivelazione, in cui ci si ritrova nudi davanti alla verità, non come se si fosse trascinati in un arbitrario viaggio in regni esterni, ma nudi davanti allo specchio in cui ci si riflette.
Quello che tutto questo ci insegna è che alla fine non saremo misurati con un metro estraneo a noi stessi, ma guarderemo nuovamente il nostro operato con occhi puri, capaci di amore e perdono.
Perché il vero giudizio non è condanna: è verità guardata attraverso lo sguardo dell’amore.
6.L’aldilà è una realtà condivisa
Una volta attraversata la soglia, non si è più semplici spettatori del vivere. Chi ritorna sa — anche se non sempre sa dirlo — che ogni gesto, ogni incontro e ogni scelta porteranno il peso, ma anche il dono, di ciò che si è visto oltre il velo.
In molti racconti di NDE si percepisce un ambiente vivo, profondamente interconnesso, in cui le presenze che lo popolano — persone amate, guide spirituali o esseri di luce — non sono altro che molteplici aspetti dell’unica coscienza universale che tutto comprende.
L’aldilà, per come viene raccontato da chi ritorna, non è fatto di paesaggi immobili o paradisi prefabbricati secondo prassi consolidate. È una realtà che risponde all’interiorità di chi la vive. La materia stessa di quei luoghi dello spirito sembra essere creata, plasmata e nutrita dall’amore, dalla memoria di chi li abita, dal desiderio più puro, privo di ogni traccia di ego.
Quel mondo che accoglie dopo la morte — questa è la lezione che i Ritornati ci insegnano — non è un luogo “altro” rispetto a noi. Non è un regno esterno, misterioso e indecifrabile. È invece la manifestazione diretta del nostro stato interiore, dei nostri legami più profondi, delle nostre verità più intime.
Tutto ciò che vive nel cuore dell’anima trova manifestazione in quei momenti. Eppure non si tratta di una illusione privata, né di un parto di un cervello morente: è una realtà condivisa, dove le singole esperienze si intrecciano, si riconoscono e si amano.
L’aldilà è relazione e co-creazione.
Occorre dunque abbandonare l’idea che l’aldilà sia uno spazio fisico, regolato da leggi materiali rigide e schematiche. L’aldilà va raccontato come un processo vivo, modellato dalla coscienza e dai legami d’amore vissuti. Ne consegue che le NDE non vanno studiate come semplici descrizioni geografiche di un “altro mondo”, ma come finestre aperte sulla natura relazionale dell’esistenza stessa. Sono luoghi, sì, ma luoghi dello spirito.
L’aldilà non è il luogo dove andiamo. E’ il luogo creato assieme, dove ciò che siamo e ciò che amiamo si fondono. È il luogo che diventiamo.
7.Integrare il vissuto. Vivere l’NDE ogni secondo della propria vita
Il senso ultimo di ciò che si è vissuto — e del conseguente ritorno — non è il semplice racconto. Non basta raccontare, per chi è tornato. È necessario incarnare. Far fiorire nella terra del quotidiano il seme raccolto ai confini dello Spirito.
L’esperienza di confine, a cui abbiamo dato il nome di NDE, non si conclude con il ritorno alla vita fisica. Rimane invece come una seconda nascita: una ferita luminosa, un sapere inciso nella carne e nello spirito di chi è ritornato.
Integrare una NDE nella propria vita significa trasformare in azione viva gli insegnamenti ricevuti, impedendo che si cristallizzino in un semplice ricordo mistico o esotico, perduto nei territori misteriosi e lontani. Il lavoro di integrazione è continuo, quotidiano.
Richiede di rimanere fedeli a quella visione, anche quando il peso del quotidiano sembra eroderla, sminuirla o offuscarla.
Chi ha attraversato quella soglia porta dentro di sé una responsabilità profonda, anche se sottile: vivere diversamente, coltivare presenza, gentilezza e verità, sapendo che ogni gesto ed ogni parola hanno risonanze invisibili.
Non si tratta di evangelizzare, né di cercare conferme. L’integrazione autentica è silenziosa: si manifesta nella qualità di ciò che si è, senza bisogno di proclami o fronzoli. Si diventa manifestazione vivente di quella Luce.
È fondamentale, quindi, dare attenzione ai processi di integrazione, e non solo al momento estatico dell’esperienza. Le NDE sono un cammino aperto, non un evento concluso. Un movimento che dispiega le proprie ali proprio a partire dal ritorno, un divenire continuo verso una versione più luminosa e autentica di sé. Portare nel mondo un frammento di quella Luce: questo è il vero compito, la vera conoscenza che possiamo trarre da tali esperienze.
Non si tratta quindi di ricordare ciò che si è visto oltre. Si tratta di diventare ciò che si è visto. Di testimoniare, attraverso il proprio vivere, una verità che chiunque, con il cuore aperto e attento, può riconoscere e mettere in pratica.