Thomas Nagel, 'Mente e Cosmo'

Discussione del libro di Thomas Nagel

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    Thomas Nagel, Mente e Cosmo

    (Andrea Giananti)

     

    Viene talvolta rimproverato alla filosofia accademica di aver perso di vista le questioni originarie che la animavano: domande fondamentali riguardanti la felicità, il significato delle cose, o l’esistenza di Dio. Correlativamente, i filosofi accademici vengono accusati di perdersi in tecnicismi e di aver trasformato la filosofia in un pratica specializzata e semi- (o pseudo)-scientifica, smarrendo così l’idea che la filosofia debba essere praticabile e praticata da tutti. Per esempio, la filosofia cosiddetta ‘analitica’ (a lungo dominante nel mondo anglo-sassone ma sempre più diffusa anche in Europa continentale) viene talvolta caratterizzata dai suoi detrattori come uno sterile esercizio scolastico imperniato su tecnicismi e questioni di lana caprina.[1]O ancora, Quassim Cassam ha recentemente raccontato con ironia come anche chi, come lui, si occupa di un argomento immediatamente attraente anche per non filosofi come la conoscenza di sé, si trovi poi a discutere di bazzecole come la propria conoscenza della propria credenza che i propri calzini sono verdi, o cose del genere.[2]

     

    Comunque la si pensi riguardo a questo tipo di critica, sicuramente non si può accusare Thomas Nagel di non occuparsi di questioni vitali: gli argomenti avanzati nel suo libro del 2012, Mind and Cosmos(tradotto in italiano per Cortina da Sarah Songhorian), investono la natura stessa dell’universo e il posto che l’essere umano vi occupa insieme con la sua coscienza, razionalità, ed etica.

     

    Il libro di Nagel avanza una tesi molto radicale che attacca due assunti presenti a suo dire nella scienza e in molta filosofia contemporanea. Il primo è il riduzionismo, cioè l’idea che, per dirla con Nagel, ‘tutto può essere spiegato al livello più fondamentale dalle scienze fisiche, allargate alla biologia’ [Traduzioni mie, N.d.A].[3]Il secondo è la teoria dell’evoluzione di Darwin nella sua versione contemporanea.[4]Quindi globalmente l’obiettivo polemico di Nagel è l’idea che ‘la vita così come la conosciamo è il risultato di una serie di accidenti fisici insieme con il meccanismo della selezione naturale’.[5]

     

    Critiche al riduzionismo e alla teoria dell’evoluzione non mancano nel panorama contemporaneo, tuttavia esse, soprattutto quelle all’evoluzionismo, provengono spesso da una impostazione religiosa, ‘teistica’, secondo la quale l’universo non può essere compreso senza far riferimento a un disegno intelligente riconducibile a una mente divina. Invece, ciò che distingue l’approccio di Nagel è proprio il rifiuto di una entità sovrannaturale in ultima analisi responsabile di tutto ciò che vediamo; l’ambizione di Nagel consiste nel ripensare la natura stessa in modo da trovare un ordine immanente a essa (invece che trascendente, come nella impostazione teistica) che renda conto in modo soddisfacente di fenomeni come la coscienza, la razionalità e i valori, che per Nagel fanno parte dell’universo allo stesso titolo degli atomi o della forza di gravità.

     

    Il libro di Nagel è stato accolto con freddezza, per essere eufemistici, dalla maggior parte della filosofia accademica e dagli scienziati. Brian Leiter e Michael Weisberg in una recensione apparsa in The Nationhanno sostenuto in pratica che il libro è un esercizio di marketing diretto a negazionisti dell’evoluzione, fanatici religiosi, e altra gente non interessata a vere questioni filosofiche e scientifiche.[6]Ancora, lo scienziato della cognizione Steven Pinker, twittando un link alla recensione di Leiter e Weisberg, ha scritto: ‘Cosa è successo a Nagel? Due filosofi mettono a nudo il ragionamento scadente di quello che una volta era un grande pensatore’.

     

    Mi sembra che queste critiche siano nettamente fuori misura. In realtà a Nagel non è successo niente, ha semplicemente continuato e sviluppato ulteriormente un corso di pensieri su temi come coscienza, soggettività e oggettività su cui lavora dagli anni settanta. Si possono trovare i suoi argomenti non convincenti, ma il suo lavoro, incluso quello contenuto in questo libro, non è riducibile a un qualche losco sotterfugio né riconducibile a un affievolimento delle facoltà mentali.

     

    Al di là dei dettagli degli argomenti di Nagel, alcuni dei quali proverò a spiegare, le motivazioni di fondo del suo lavoro possono essere illustrate nei termini di un contrasto tra due diverse concezioni o immagini dell’essere umano: l’immagine ‘manifesta’ e l’immagine ‘scientifica’[7].

     

    L’immagine manifesta ci dipinge come essere liberi, razionali, capaci di agire per delle ragioni, al contrario per esempio di una pietra e forse di molti tipi di animali. Si tratta di una immagine ‘manifesta’ nel senso che è questo il modo in cui normalmente ci appaiono gli altri e consideriamo noi stessi, prima di una riflessione più articolata sui fattori che condizionano le nostre scelte e più in generale sul modo in cui funziona il nostro apparato psico-fisico.

     

    L’immagine scientifica d’altro canto ci rappresenta come il risultato di una lunghissima serie di eventi fisici, reazioni chimiche, e di mutazioni descrivibili in termini biologici nelle quali il caso interviene copiosamente. Una questione che genera inquietudine affiora a più riprese nella storia della filosofia: quella di sapere se e in che misura queste due immagini siano compatibili.

     

    Per esempio, Kant ha argomentato[8]che nella misura in cui ci concepiamo come parte di un mondo ‘sensibile’ (un mondo che rappresentiamo attraverso i nostri sensi), ci concepiamo come causalmente determinati dalle leggi della natura, in un modo non dissimile da quello in cui un sasso è soggetto alla legge di gravità. D’altra parte, quando ci concepiamo come parte di un mondo ‘intelligibile’ ci concepiamo come esseri che agiscono sulla base di considerazioni che essi stessi rappresentano come ragioni, e in tal modo si sottraggono alla determinazione causale.

     

    Vi è un’altra domanda connessa alle due immagini, quella manifesta e quella scientifica, che vale la pena di inquadrare. Supponiamo che ci siano ragioni conclusive per credere nella verità dell’immagine scientifica, e che questa sia fondamentalmente incompatibile con quella manifesta. In tal caso dovremmo sbarazzarci dell’immagine manifesta, o comunque considerarla come nient’altro che finzione. Ma potremmo veramente farlo? Immaginiamo di avere un appuntamento con un amico, e che questo non si presenti. Alla richiesta di spiegazioni, ci dice che non ha idea del perché non si sia presentato, ma che deve sicuramente esserci una spiegazione causale che ha pienamente determinato il suo comportamento. Penso che troveremmo tutti questo tipo di spiegazione estremamente bizzarro. Esigeremmo piuttosto una spiegazione in termini di ragioni cognitivamente accessibili e probabilmente esprimibili in una semplice frase dal nostro amico: che si tratti di dire ‘Ho preferito fare altro’, o ‘Un altro impegno me l’ha impedito’, o semplicemente ‘Mi sono dimenticato’.

     

    Cosa siamo dunque veramente? Creature raziocinanti e libere nel mondo intelligibile o sudditi della causalità in un mondo sensibile? E potemmo mai conciliare la maniera in cui ci appare il nostro comportamento da una parte, con l’idea di essere in balia di forze soverchianti e potenzialmente inscrutabili dall’altra? Queste domande sono tanto vive e pressanti oggi quanto lo erano ai tempi di Kant. Si può interpretare il libro di Nagel come lo sforzo di descrivere la tensione tra le due ‘immagini’ in termini nuovi. Quello che fa Nagel è in effetti sostenere che certi aspetti dell’immagine manifesta sono ovviamente veri—siamo coscienti, siamo razionali, ci sono delle verità etiche oggettive che siamo in grado di afferrare—e che se l’immagine scientifica non può rendere conto di questo (come lui argomenta), allora vi è qualcosa di sbagliato in essa.

     

    Nel seguito dell’articolo cercherò di illustrare questa dialettica tra immagini in tre figure: la coscienza, la razionalità, l’etica.

     

     

    Coscienza

    Percepiamo noi stessi e gli altri come esseri coscienti. Che rapporto c’è tra questa evidenza e ‘l’immagine scientifica’? Il lavoro di Nagel sulla coscienza risale a un articolo pubblicato nel 1974 e intitolato ‘What is it like to be a bat?’ (‘Che cosa si prova a essere un pipistrello?’), nel quale esprime un certo grado di scetticismo riguardo alla possibilità di spiegare in termini scientifici cosa sia la coscienza. Ci sono almeno due punti di interesse in quell’articolo, che è anche alla base del capitolo sulla coscienza in Mente e cosmo.[9]Il primo è che Nagel tenta di dare una caratterizzazione di cosa significhi esser coscienti, che poi è diventata estremamente influente in filosofia e quantomeno conosciuta nella scienza. Ciò che distingue le creature coscienti è che si prova qualcosa a essere una di quelle creature. Pensiamo al gusto del caffè, all’effetto che ci fa vedere i colori, provare delle emozioni, o avere una intuizione improvvisa. Sono episodi diversi tra loro, ma sono tutti accomunati dal fatto che fa un certo effetto essere il soggetto di questi avvenimenti. D’altro canto, presumibilmente quando spostiamo una pietra o un tavolo dall’ombra al sole benché questi oggetti passino da uno stato a un altro (dall’essere freddi all’essere caldi, per esempio) non provano qualcosa, e questo combacia con la nostra idea che questi oggetti non sono coscienti.

     

    La seconda cosa influente in quell’articolo è che da questa semplice caratterizzazione della coscienza appena fornita Nagel trae conclusioni impegnative riguardo alla possibilità di una scienzadella coscienza. Per capire l’argomentazione di Nagel dobbiamo prima fare un’altra osservazione riguardo alla sua descrizione della coscienza e poi riflettere brevemente sul modo in cui normalmente procede la scienza.

     

    Ciò che caratterizza gli episodi coscienti che abbiamo preso come esempi è che includono una componente soggettiva. Questa componente secondo Nagel può financo rendere l’esperienza cosciente qualcosa di ineffabile. Non a caso Nagel porta la nostra attenzione fin dal titolo su un organismo nel quale è molto difficile immedesimarsi, per via dell’apparato sensoriale completamente diverso dal nostro: il pipistrello. Sembra estremamente plausibile che il pipistrello sia cosciente. Ma che effetto fa essere un pipistrello? Si tratta di un animale che percepisce il mondo attraverso un sistema di ecolocazione analogo a quello di un radar: il pipistrello emette suoni ad alta frequenza e costruisce una rappresentazione dell’ambiente sulla base degli echi di ritorno. Cosa si priva a percepire in questo modo? Come Nagel nota ironicamente, pre rispondere a questa domanda non servirebbe a molto provare a comportarsi come un pipistrello e penzolare dal soffitto nell’attico nutrendosi di insetti verso il tramonto, né immaginare di produrre ultrasuoni e ascoltarli rimbalzare sulle pareti. Tutto questo potrebbe forse servire a farci una idea dell’effetto che farebbe a noivivere come un pipistrello, ma non ci dice ancora nulla di cosa provi un pipistrellonell’essere un pipistrello—la sua soggettività rimane fondamentalmente aliena.

     

    La conclusione generale che trae Nagel da questo tipo di esempio è che vi sono deifatti(riguardanti cosa si prova ad essere una persona, un pipistrello o un marziano) che incorporano essenzialmente un punto di vista, o una prospettiva soggettiva—inoltre, alcuni di questi fatti non sono nemmeno esprimibili in un linguaggio umano (come nel caso delle sensazioni del pipistrello).

     

    Per avere un quadro più completo dello scetticismo di Nagel riguardo a una scienza della coscienza (in particolare riguardo a una trattazione della coscienza in terminifisici), e del perché Nagel pensi che questo scetticismo segua logicamente dalla natura della coscienza, dobbiamo adesso considerare come procedono solitamente le scienze empiriche.

     

    La scienza deve essere o quanto meno ambire a essere oggettiva—uno scienziato il cui metodo di lavoro consistesse nel descrivere quello che prova in questa o quella situazione verrebbe rapidamente e giustamente licenziato. La distinzione tra soggettività e oggettività, nel senso in cui la intende Nagel, è relativa. Dire che oggi è mercoledì esprime un punto di vista soggettivo nel senso che presuppone un punto di vista temporale molto specifico. Dire che è un mercoledì di marzo implica adottare un punto di vista piùoggettivo. E dire che è il 30 marzo 2022 implica un grado di oggettività ancora maggiore. Di nuovo, localizzare una strada come ‘a sinistra’ è molto soggettivo; fornire le coordinate GPS del luogo implica un grado di oggettività molto maggiore.

     

    Un obiettivo centrale per le scienze è quello di spostarsi da una descrizione soggettiva dei fenomeni a una comprensione molto più oggettiva. Pensiamo per esempio al tipo di traguardo che viene raggiunto quando si scopre la natura dell’acqua:

     

    (1) Acqua = H2O

     

    L’esperienza che abbiamo dell’acqua è quella di un liquido che può avere certi usi e al cui contatto abbiamo certe esperienze: di caldo, di freddo, di ristoro, e così via. Queste esperienze implicano un punto di vista soggettivo, e le nostre descrizioni ordinarie dell’acqua come qualcosa di trasparente, o qualcosa che assume colorazioni cangianti, implica soffermarsi su certi modi in cui l’acqua ci appare. Il linguaggio delle ‘apparenze’ (l’uso di verbi come ‘sembra’, o di locuzioni come ‘è dolce’, ‘è freddo’) indica un potenziale divario tra apparenza e realtà, ed è proprio lungo questo crinale che operano le scienze.

     

    Lo sforzo di una comprensione scientifica di una sostanza come l’acqua o di un metallo come l’oro, per prendere un altro esempio, consiste nel tentativo di comprendere i vari modi in cui queste cose ci appaiono e ne facciamo esperienza come qualcosa che in ultima analisi si riduce a delle proprietà fisiche descrivibili in termini quantitativi che non hanno nulla a che fare con le nostre esperienze. La natura dell’acqua non consiste nell’essere un liquido rinfrescante o con il quale si può cucinare, consiste nell’essere composto da molecole di H2O; la natura dell’oro non consiste nell’essere giallognolo o nell’essere ‘prezioso’, consiste nell’avere 79 come numero atomico. La possibilità dell’impresa scientifica dipende esattamente dalla comprensione del fatto che i fenomeni investigati hanno un carattere oggettivo che non si esaurisce nel loro apparire o essere categorizzati in questo o quel modo. Di qui il tentativo di staccarsi dalle proprie esperienze abbandonando il punto di vista soggettivo: il lampo non è definito dall’impatto che ha suoi nostri occhi, e il calore non è definito dalla sensazione che ci provoca. Per dirla con Nagel, nell’ambito della comprensione scientifica descriviamo un fenomeno fisico non in termini ‘delle impressioni che produce sui nostri sensi, ma nei termini dei suoi effetti più generali e di proprietà rilevabili da mezzi differenti dai sensi umani’.[10]

     

     

     

    Una delle descrizioni più classiche e chiare del modo di procedere scientifico risale a Galileo, il quale elimina esplicitamente certi aspetti soggettivi dell’esperienza dal dominio di ciò che è oggettivo e indagabile dalle scienze:

     

    Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc. … tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sí che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; (Il Saggiatore, 223).

     

    Per Galileo, mentre una proprietà come l’estensione è chiaramente oggettiva, nel senso che ha una realtà che non si esaurisce nell’esperienza che ne facciamo, cose come colori e odori sono fenomeni transitori che dipendono dal ‘corpo sensitivo’.

     

    Proviamo ora ad applicare al campo della coscienza l’oggettivizzazione sistematica praticata dalle scienze. Idealmente, giungeremmo a una qualche identificazione analoga a (1)

     

    (2) Coscienza = [qualche stato di cose/evento fisico]

     

    Potremmo mai giungere a una identificazione di questo genere? Per arrivare a questo tipo di equazione dovremmo abbandonare il punto di vista soggettivo, proprio come abbiamo fatto nello scoprire la natura dell’acqua o dell’oro. Ma è proprio questo abbandono a essere problematico secondo Nagel, per almeno due ragioni.

     

    Primo, abbiamo visto che la transizione da ciò che è soggettivo a ciò che è oggettivo normalmente implica una distinzione tra apparenza e realtà.[11]Tuttavia, questa distinzione sembra perdere di senso se applicata alla coscienza. In che modo potremmo tracciarla? Potremmo forse dire che ci sembra di essere coscienti ma non lo siamo? O che ci sembra che si provi una certa cosa ad avere un dolore ma in realtà non è così? Certamente potremmo imparare a descrivere meglio le nostre sensazioni, ma sembra estremamente improbabile che potemmo scoprire che in realtà nonabbiamo sensazioni, o che quelle che abbiamo sono sistematicamente completamente diverse da quelle che ci sembra di avere.

     

    Secondo, supponiamo di poter escludere la dimensione soggettiva dall’esperienza cosciente, per poterla così analizzare la coscienza scientificamente. Ma cosa resta da analizzare una volta che abbiamo tolto la soggettività? Nel caso delle sostanze naturali come l’oro e l’acqua la risposta è chiara: restano delle sostanze con determinate proprietà che restano tali indipendentemente dalla nostra esperienza. Ma questo non vale per il caso della coscienza. La coscienza, abbiamo visto, è essenzialmentesoggettiva: se vengono sottratti gli aspetti soggettivi, non resta più nulla da descrivere e indagare—la sottrazione della soggettività, invece di avvicinarci a una comprensione più profonda del nostro fenomeno di studio, lo annulla.[12]

     

    Queste, secondo Nagel, le ragioni per cui una scienza della coscienza è intrinsecamente problematica. Quando adottiamo il punto di vista dell’immagine manifesta ci è chiaro che siamo esseri coscienti. Quando adottiamo il punto di vista dell’immagine scientifica vorremmo ridurre la coscienza a un fenomeno descrivibile in termini puramente oggettivi, ma questo non sembra possibile.

     

     

    Razionalità

    Gli argomenti di Nagel intorno alla coscienza, specialmente così come sono esposti nell’articolo del 1974, prendono di mira il riduzionismo, in quanto incapace di rendere conto della ineliminabile soggettività della coscienza.

     

    Il quarto capitolo di Mente e cosmosi intitola invece ‘cognizione’, e consta di una serie di argomenti volti a sostenere che l’evoluzionismo, almeno nella sua forma attuale, non consente una comprensione adeguata della nostra razionalità. Un motivo di speciale interesse negli argomenti di Nagel emerge per contrasto con il suo argomento sulla coscienza: mentre nel caso della coscienza à la soggettività che causa problemi, nel caso della razionalità è proprio la sua oggettività, il suo trascendere punti di vista soggettivi particolari, che causa problemi per la comprensione scientifica.

     

    Nella sua manifestazione più basilare la trascendenza del nostro pensiero razionale prende la forma di una distinzione tra apparenza e realtà. Più in generale, la nostra capacità di elaborare teorieimplica fare astrazione da esperienze e situazioni particolari. Prendiamo a titolo illustrativo il primo principio della dinamica, secondo cui un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato. Se non fossimo in grado di trascendere situazioni particolari, non potremmo mai formulare un tale principio: nelle nostre esperienze ordinarie praticamente niente si muove di moto rettilineo uniforme, e solo se siamo in grado di immaginare condizioni differenti da quelle delle nostre esperienze normali—condizioni senza attrito, per esempio—possiamo giungere a elaborare una teoria del moto.

     

    Cosa ha a che fare tutto questo con l’evoluzione? La strategia di Nagel ha due componenti: da una parte, ipotizza una spiegazione delle nostre facoltà sensoriali, dei nostri desideri, e delle nostre pulsioni, compatibile con l’evoluzione. Da un’altra, immagina una analoga spiegazione delle nostre capacità razionali, ma trova che quest’ultima abbia delle lacune significative.

     

    Pare evidente che se le nostre percezioni fossero sistematicamente sbagliate non potremmo evitare ostacoli e predatori di vario tipo, quindi probabilmente saremmo già estinti. Lo stesso succederebbe se avessimo l’impulso costante di metterci in situazioni pericolose, o se la maggior parte degli umani non avesse il desiderio di prendersi cura dei propri piccoli. Questo genere di spiegazione ci permette tra l’altro di rivendicare l’affidabilità delle nostre facoltà sensoriali. Immaginiamo di diventare per una qualche ragione dubbiosi riguardo ai nostri sensi in generale. Per prendere un esempio, ci sembra di vedere del cibo di fronte a noi ma non siamo sicuri che i sensi siano una fonte di conoscenza e una guida affidabile per il nostro comportamento. Sulla base di una semplice riflessione, possiamo riguadagnare fiducia nella nostra percezione come segue:

     

    1: Le nostre capacità percettive sono state selezionate nel corso dell’evoluzione in quanto aventi valore per la nostra sopravvivenza;

    2: Se le nostre capacità percettive sono state selezionate nel corso dell’evoluzione in quanto aventi valore per la nostra sopravvivenza, allora le nostre capacità percettive sono generalmente affidabili;

    Quindi,

    Conclusione: Le nostre capacità percettive sono generalmente affidabili.

     

    Fino a qui tutto bene. Ma Supponiamo ora di dover formulare un resoconto evoluzionista di come le nostre capacità intellettuali, formatesi e selezionate anch’esse per garantire la nostra sopravvivenza in un ambiente nel quale esercitavamo attività relativamente basilari come cacciare e riprodurci, possano essere alla base di generalizzazioni di una portata tale da consentirci di formulare leggi scientifiche che ci permettono una comprensione dell’intero universo nelle sue strutture generali.

     

    Nagel stesso si esercita a tratteggiare i contorni di una spiegazione che in realtà pare inzialmente plausibile. Innanzitutto, sembra verosimile che la capacità di generalizzare sulla base di gruppi di esperienze o cose simili possa avere valore di sopravvivenza—capire che non è solo questofungo a causare un avvelenamento, ma funghi di quel tipo, può essere cruciale. Questa generalizzazione implica già una qualche forma di trascendenza, nella misura in cui presuppone la capacità di concepire esperienze meramente possibili e di pensare a oggetti che non sono presenti qui e ora. In questo tipo di capacità generalizzatrice, ipotizza Nagel, potremmo identificare l’origine evolutiva dell’induzione e della verifica di ipotesi empiriche. Questo genere di ricostruzione evoluzionista della nostra razionalità può spingersi oltre. Per esempio, non è difficile immaginare il valore evolutivo della capacità di rivedere le proprie convinzioni e mantenere un alto grado di coerenza—se non fossimo in grado di aggiornare la nostra rappresentazione dell’ambiente sulla base di nuovi inputs, avremmo sicuramente uno svantaggio. Nella capacità di formare rappresentazioni coerenti, ipotizza Nagel, potremmo vedere le origini della logica. Infine, per rimanere sempre nei limiti di un abbozzo di spiegazione, il fatto di poter mettere in questione il modo in cui ci appaiono (in senso percettivo o figurato) le cose comparandole con il modo in cui appiano agli altri può verosimilmente apportare dei vantaggi significativi. Di nuovo, questo implica un grado di trascendenza: non c’è solo il modo in cui questa cosa appare a me qui e ora, ci sono anche vari modi in cui la stessa cosa appare o è apparsa ad altri, il che implica a sua volta che esistono altre menti oltre alla mia.[13]

     

    Nagel stesso, dunque, immagina il filo rosso che collega l’origine evolutiva della nostra cognizione con lo sviluppo di teorie tanto generali da pretendere di abbracciare il tutto. Cosa vi è da obiettare in tutto questo, allora? Uno dei punti decisivi per Nagel è che essere una creatura razionale implica anche sapere mettere in discussione le proprie capacità e i propri ragionamenti, ed eventualmente riguadagnare fiducia in essi oppure rivedere il loro ruolo—così come illustrato nel caso delle capacità sensoriali.

     

    Consideriamo un semplice ragionamento, che chiameremo R1:

     

    1: Le persone nate a Berlino sono nate in Germania;

    2: Se qualcuno è nato in Germania, allora è nato in Europa;

    Quindi

    Conclusione: Le persone nate a Berlino sono nate in Europa.

     

    Supponiamo ora di divenire per un qualche motivo dubbiosi di questo ragionamento—magari confondiamo momentaneamente la forma di questo ragionamento con quella di un ragionamento non valido (per esempio: tutti i berlinesi sono nati in Germania; Johannes è nato in Germania; quindi, Johannes è berlinese).

     

    Supponiamo anche di voler capire se possiamo riguadagnare fiducia nel nostro ragionamento sulla base del suo supposto valore adattativo. Ci ingaggeremo dunque in un ulteriore ragionamento, che chiameremo R2:

     

    1: I ragionamenti che ho tendenza a fare sono stati selezionati lungo il corso dell’evoluzione per il loro valore di sopravvivenza;

    2: Se i ragionamenti che ho tendenza a fare sono stati selezionati lungo il corso dell’evoluzione per il loro valore di sopravvivenza, allora sono generalmente affidabili;

    Quindi,

    Conclusione: I ragionamenti che ho tendenza a fare sono generalmente affidabili.

     

    Cosa c’è che non va? R2esemplifica in sostanza la stessa forma di ragionamento esemplificata da R1, quindi una giustificazione evoluzionista di R1è circolare.

     

    Cosa ci suggerisce tutto questo? Nagel fa varie osservazioni, ma qui ne riassumo due per concludere questa parte. La prima è puramente negativa: non possiamo convalidare una inferenza attraverso la riflessione ‘che l’affidabilità dei miei processi logici di pensiero è coerente con l’ipotesi che l’evoluzione li ha selezionati per la loro accuratezza’ perché questo ‘indebolirebbe drasticamente’ l’inferenza in questione.[14]La seconda è che la nostra facoltà razionale afferra certe verità in modo diverso, più diretto, secondo Nagel, di quanto le nostre capacità sensoriali ci permettano di venire a conoscere cose concernenti il nostro ambiente. Quando vedo un albero, per esempio, è chiaro che numerosi processi causali sono implicati nel fatto che ho l’impressione che ci sia un albero davanti a me: nella percezione, siamo come ‘meccanismi governati da un algoritmo [processi di vario tipo che hanno valore di sopravvivenza] che preservano la verità’.[15]Quando invece afferriamo la validità di un ragionamento, somigliamo di più a ‘un meccanismo che può vedere che l’algoritmo che segue preserva la verità’.

     

    Non possiamo distaccarci dalla razionalità e osservarla scientificamente come un fenomeno da indagare al pari della percezione o di altri impulsi; la razionalità è qualcosa che dobbiamo presupporre, e niente può giustificare la nostra fiducia nella razionalità al di fuori della razionalità stessa.

     

     

    Etica

    Il quinto capitolo del libro di Nagel si intitola ‘valore’ e ha come soggetto principale l’etica. Solitamente lo statuto di agenti moraliviene attribuito soltanto agli essere umani[16], in quanto capaci di agire non semplicemente sulla base di un impulso o la previsione di un beneficio, ma sulla base di ragioni morali—sulla base del fatto che qualcosa è giustoo sbagliato.

     

    L’agire sulla base di considerazioni morali implica, tanto quanto la cognizione razionale, un elemento di trascendenza rispetto alla propria esperienza nel qui e ora: non soltanto generalizziamo dalla nostra esperienza ad altre nostre esperienze future possibili (dal fatto che una certa cosa ci causa una esperienza negativa, per esempio, possiamo generalizzare e concludere che quel tipo di cosa ha una valenza negativa), ma anche alle esperienze altrui—per citare Nagel, ‘Se qualcosa che faccio procurerà sofferenza a un’altra creatura, questa è una considerazione contro quella cosa. Posso giungere a vedere che è così generalizzando dal disvalore della mia sofferenza, e una volta che riconosco questa verità più generale le mie motivazioni cambieranno’[17].

     

    Così come si può provare a tracciare una spiegazione evoluzionista delle nostre percezioni e delle nostre capacità razionali, si può immaginare una spiegazione analoga per i nostri giudizi morali: se per esempio io non rispettassi mai la parola data e mi comportassi sistematicamente in maniera egoista, non potrei contare sulla collaborazione degli altri, e questo potrebbe procurarmi uno svantaggio dal punto di vista dell’adattamento all’ambiente e alla società—possiamo ipotizzare che storicamente gli individui che avevano certi sentimenti e comportamenti che giudichiamo moralmente corretti abbiano avuto maggiori possibilità di sopravvivere a riprodursi, proprio per via dell’appoggio ricevuto dalla comunità.

     

    Tuttavia, qui secondo Nagel il problema è un altro: quello della veritàdei nostri giudizi di valore. Nagel riguardo all’etica può essere definito un realista: pensa che ci sono giudizi di valore veri, la cui verità non può essere relativizzata o ridotta a qualcos’altro. Invece, un soggettivista o relativista sosterrebbe che i nostri giudizi di valore possono essere considerati veri soltanto relativamente a qualcos’altro, per esempio qualche altro fatto concernente la nostra costituzione psicologica.

     

    Per inquadrare meglio il dibattito può essere utile prendere in conto la posizione articolata da Sharon Street nel suo articolo del 2006, ‘A Darwinian dilemma for realist theories of value’, discusso da Nagel stesso nel libro. Street nota che l’evoluzione ha sicuramente avuto una influenza decisiva nel plasmare le nostre ‘tendenze valutative di base’: la tendenza a percepire in modo irriflesso, pre-razionale e pre-linguistico, che certe situazioni richiedono certi comportamenti—che un piccolo in difficoltà, per esempio, deve essere aiutato al più presto. La tesi di Street è che queste tendenze di base, selezionate lungo il corso dell’evoluzione per il loro valore adattativo, abbiano a loro volta influenzato i nostri giudizi. Gli animali in generale tendono a reagire in un certo modo quando i loro piccoli sono in pericolo; questa tendenza valutativa di base, possiamo ipotizzare, si è poi cristallizzata per creature come noi in un giudizio che consideriamo oggettivamente, incondizionatamente valido: aiutare un bambino in difficoltà è moralmente giusto e obbligatorio.

     

    Immaginiamo però, seguendo Street, di esserci evoluti in modo differente, con tendenze differenti. I leoni per esempio spesso uccidono i cuccioli maschi—la loro tendenza valutativa di base è che questo comportamento è richiesto. Se ci fossimo evoluti in quella direzione, e se è vero come Street suppone che i nostri giudizi riflettono le nostre tendenze di base, il nostro vissuto e i nostri giudizi morali sarebbero molto diversi.

     

    Proviamo ora a connettere tutto questo con il problema della verità, a cui è interessato Nagel. Supponiamo che Street abbia ragione riguardo alle tendenze di base e la loro influenza sui nostri giudizi. Qual è la probabilità che l’evoluzione abbia guidato i nostri giudizi verso la verità? Secondo Street, molto bassa: il vantaggio evolutivo ha a che fare con l’essere adattoa un certo ambiente, non con la verità. In effetti, Street illustra il problema attraverso una immagine vivida: supporre che i nostri giudizi siano influenzati dall’evoluzione e che questa influenza ci abbia condotto a formulare giudizi veri è un po’ come mettersi in mare alla ricerca dell’arcipelago di Bermuda lasciando che ‘il corso della barca venga determinato da venti e maree: così come la spinta di venti e maree non ha nulla a che fare con dove tu voglia andare, così la spinta storica dell’evoluzione naturale sul contenuto dei nostri giudizi non ha nulla a che fare con la verità valutativa’.

     

    Un realista evoluzionista si troverebbe quindi in una posizione un po’ difficile: dovrebbe dire che ci sono delle verità etiche irriducibili ad altri fatti più basilari, ma che l’influenza che l’evoluzione ha avuto sui nostrigiudizi fa sì che questi probabilmente siano falsi.

     

    La conclusione di Street è che è meglio abbandonare il realismo. La conclusione di Nagel è che c’è qualcosa che non va nel quadro evoluzionista. Semplificando molto, potremmo riassumere la dialettica tra Street e Nagel come segue. Street argomenta per modus ponens, come si è soliti dire in logica:

     

    1: I nostri giudizi morali traggono la loro validità dall’evoluzione;

    2: Se i nostri giudizi morali traggono la loro validità dall’evoluzione, allora i nostri giudizi morali non hanno nulla a che fare con la verità;

    Quindi,

    Conclusione: I nostri giudizi morali non hanno nulla a che fare con la verità.

     

    Nagel, d’altra parte, argomenta per modus tollens, mantenendo invariata la seconda premessa ma usando in sostanza il contrario della conclusione di Street come prima premessa:

     

    1: Ci sono giudizi morali veri (e almeno alcuni dei nostri giudizi fanno parte di questo insieme)

    2: Se i nostri giudizi morali traggono la loro validità dall’evoluzione, allora i nostri giudizi morali non hanno nulla a che fare con la verità;

    Quindi,

    Conclusione: I nostri giudizi morali non traggono la loro validità dall’evoluzione.

     

    Nagel non nega che certe cose a cui attribuiamo un valore (positivo o negativo), abbiano un ruolo nel processo evolutivo. Per esempio, riconosce che il dolore e il piacere abbiano un ruolo dal punto di vista evolutivo; tuttavia, ritiene anche che il dolore sia intrinsecamente cattivo, non semplicemente qualcosa che non ci piace per via della nostra costituzione. Più precisamente, Nagel ritiene che piacere e dolore abbiano una ‘… doppia natura’:

     

    In virtù dell’attrazione e avversione che è loro essenziale, giocano un ruolo vitale nella sopravvivenza e nell’adattamento, a la loro associazione con specifiche funzioni e malfunzionamenti biologici può essere spiegata dalla selezione naturale. Ma per esseri come noi, capaci di ragion pratica, sono anche oggetti di coscienza riflessiva, a cominciare dal giudizio che il piacere e il dolore sono buoni e cattivi in sé stessi, e a seguire con altri valori, verso un riconoscimento più sistematico ed elaborato di ragioni per l’azione … e infine di princìpi morali.[18]

     

    Secondo Nagel il valore è non soltanto qualcosa di oggettivo, ma anche qualcosa che, lungi dall’essere riducibile a qualcos’altro, contribuisce a spiegare ciò che troviamo nella realtà. Seppur in modo molto abbozzato, Nagel traccia una sorta di storia del valore. Il punto nella storia del cosmo nel quale appare il valore è per Nagel lo stesso in cui appare la vita, con organismi per i quali esistono vari modi in cui le cose possano andare bene o male. Un secondo stadio di sviluppo è quello in cui appaiono organismi coscienti. Un terzo stadio coincide con l’emergere dalla ragione, teoretica e pratica: è qui che il bene e il meale diventano anche oggetti di riflessione, non soltanto forze che ci spingono in una direzione o un’altra.

     

    Per concludere, il libro di Nagel non è, al contrario di quanto giudicato da alcuni, un subdolo esperimento di marketing. Quello di cui può essere forse ragionevolmente accusato e di non avere niente che somigli lontanamente a una soluzione dei problemi individuati. Tuttavia, la storia del valore abbozzata da Nagel contiene un suggerimento: che il valore stesso abbia un ruolo causale da giocare nella storia del cosmo. Per spiegare come, bisogna fare una piccola riflessione intorno al concetto di causa.

     

    Nagel riprende il concetto aristotelico di causalità teleologica, o finale: il fine di qualcosa spiega l’esistenza o certe caratteristiche della cosa stessa. Per recuperare un esempio di Kant, supponiamo che io costruisca una casa perché ho intenzione di affittarla e trarne un guadagno. Qual è la causa dell’esistenza della casa? In un certo senso sicuramente la manodopera, i materiali, eccetera. Ma c’è un senso altrettanto reale in cui la rappresentazione di un possibile guadagno è la causa della sua esistenza: si tratta della causa finale della casa. L’ipotesi di Nagel è che qualcosa di simile valga per il valore: certe cose esistono e sono come sono perché hanno un valore: in termini generali e suggestivi, Nagel immagina che il valore non sia soltanto un effetto secondario della vita, piuttosto che ci sia la vita perchéla vita è una condizione necessario per il valore.[19]

     

    Si può naturalmente dubitare della validità del concetto di causa finale, e quindi sostenere che Nagel non ha soluzioni alternative all’immagine scientifica attuale[20]: tuttavia identificare i limiti delle spiegazioni scientifiche attualmente disponibili è esso stesso un esercizio costruttivo, ed è così che va inteso Mente e cosmo.

     

    Riferimenti

    Dawkins, R. (1986). The Blind Watchmaker. New York: Norton. Trad. It. Sosio, L. (2017).L’orologiaio cieco. Mondadori.

    Glock, H. (2008). What is Analytic Philosophy? Cambridge University Press.

    Hawthorne, J., Nolan, D. (2006). ‘What would teleological causation be?’ In Hawthorne, J. (Ed.), Metaphysical Essays. Oxford: Oxford University Press, 265—83.

    Kant, I. (2003). Fondazione della metafisica dei costumi. Bompiani.

    Leiter, B., Weisberg, M. (2012). ‘Do you only have a brain? On Thomas Nagel’. The Nation, October 3, 2012.

    Nagel, T. (1974). ‘What is it like to be a bat?’ Philosophical Review83: 435—450. Trad. It. Besussi, A. (2015) in Questioni mortali. Il Saggiatore.

    Nagel, T. (2012). Mind and Cosmos. Oxford: Oxford University Press. Trad. It. Songhorian, S. Mente e cosmo. Cortina.

    Rowlands, M. (2012).Can Animals be Moral?Oxford: Oxford University Press.

    Sellars, W. (1962) Philosophy and the Scientific Image of Man. In Colodny, R. (Ed.) Frontiers of Science and Philosophy. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press 35–78. Trad. It. Gatti, A. (2008). La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo. Armando Editore.

    Street, S. (2006). A Darwinian dilemma for realist theories of value. Philosophical Studies127: 109—166.

     

     



    [1]Per una discussione di questa accusa si veda per esempio Glock (2008).

    [2]Si veda Cassam (2015).

    [3]‘… everything can be accounted for at the most basic level by the physical sciences, extended to include biology’. (Nagel 2012: 13).

    [4]Nagel tratta come canonica l’esposizione di Dawkins (1986).

    [5]‘It is prima facie highly implausible that life as we know it is the result of a sequence of physical accidents together with the mechanism of natural selection’ (6).

    [6]‘The subtitle [Why the materialist neo-Darwinian conception of nature is almost certainly false; N.d.A.] seems intended to market the book to evolution deniers, intelligent-design acolytes, religious fanatics and others who are not really interested in the substantive scientific and philosophical issues’ (Leiter, Weisberg 2012).

    [7]Qui sto adattando il titolo di un importante articolo di Sellars (1962).

    [8]Si veda per esempio Kant (2003).

    [9]In questa parte mi concentrerò soprattutto sull’argomento sviluppato nell’articolo del 1974.

    [10]We describe [a physical phenomenon] not in terms of the impressions it makes on our senses, but in terms of its more general effects and of properties detectable by means other than the human senses’ (Nagel 1974: 444).

    [11]‘The idea of moving from appearance to reality seems to make no sense here. What is the analogue in this case to pursuing a more objective understanding of the same phenomena by abandoning the initial subjective viewpoint toward them in favor of another that is more objective but concerns the same thing?’ (Nagel 1974: 444).

     

    [12]… if the facts of experience—facts about what it is like forthe experiencing organism—are accessible only from one point of view, then it is a mystery how the true character of experiences could be revealed in the physical operation of that organism. The latter is a domain of objective facts parexcellence—the kind that can be observed and understood from many points of view and by individuals with differing perceptual system’ (442).

     

    [13]L’evoluzione del linguaggio e il suo ruolo nell’accrescere l’efficacia di tutte queste capacità meriterebbe naturalmente una trattazione a parte.

    [14]‘I cannot pull back from a logical inference and reconfirm it with the reflection that the reliability of my logical thought processes is consistent with the hypothesis that evolution has selected them for accuracy. That would drastically weaken the logical claim’ (80).

    [15]In perception, we are like mechanisms governed by a (roughly) truth-preserving algorithm. But when we reason, we are like a mechanism that can see that the algorithm it follows is truth-preserving.’ (83)

    [16]Ci sono naturalmente delle eccezioni a questo modo vedere, per esempio Rowlands (2012).

    [17]If something I do will cause another creature to suffer, that counts against doing it. I can come to see that this is true by generalizing from the evident disvalue of my suffering, and once I recognize the more general truth, my motives will be altered.’ (77)

    [18]In the realist interpretation, pleasure and pain have a double nature. In virtue of the attraction and aversion that is essential to them, they play a vital role in survival and fitness, and their association with specific biological functions and malfunctions can be explained by natural selection. But for beings like ourselves, capable of practical reason, they are also objects of reflective consciousness, beginning with the judgment that pleasure and pain are good and bad in themselves and leading on, along with other values, to more systematic and elaborate recognition of reasons for action and principles governing their combination and interaction, and ultimately to moral principles.’ (111)

    [19]‘… value is not just an accidental side effect of life; rather, there is life because life is a necessary condition of value’ (123). O ancora: ‘Teleology means that in addition to physical law of the familiar kind, there are other laws of nature that are “biased toward the marvelous.’ (92)

    [20]Si veda Hawthorne e Nolan (2006) per una discussione contemporanea intorno al concetto di causa finale.