Vignetta di Riana Duncan, PUNCH, 1988

Che cos'è l'ingiustizia epistemica?

Vari tipi di ingiustizia

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    Miranda Fricker, nel suo libro Epistemic Injustice (2007, Oxford University Press), ha elaborato un nuovo concetto: quello di ingiustizia epistemica. Il libro di Fricker ha avuto grande risonanza internazionale, tuttavia i materiali critici disponibili in italiano sono ancora relativamente pochi e il libro non è stato fino a ora tradotto per gli italofoni.

     

    Comincerò con il delineare in termini molto generali cosa è l’ingiustizia epistemica secondo Fricker. In seguito cercherò di spiegarne l’impatto e di indicare brevemente come si potrebbe uscire da una situazione di ingiustizia epistemica.

     

    Ingiustizia Epistemica

     

    La definizione data da Fricker di ingiustizia epistemica è la seguente (le traduzioni in italiano sono mie [N.D.A]): si tratta di un ‘torto fatto a qualcuno nella sua capacità di conoscitore’.[1] Che cosa significa? Ci sono due varietà di ingiustizia attraverso le quali questa definizione astratta può essere specificata: l’ingiustizia testimoniale (‘testimonial injustice’, alla quale Fricker dedica la gran parte del libro) e l’ingiustizia ermeneutica.

     

    L’ingiustizia testimoniale

    Alcuni degli esempi più efficaci di Fricker si basano sulla narrativa ma hanno chiare controparti nella realtà. Nella sceneggiatura di Minghella (2000) The Talented Mr. Ripley (basata sull’omonimo romanzo di Patricia Highsmith (1955)), Marge ha dei fondati sospetti che Ripley abbia ucciso il suo fidanzato, Dickie. Tuttavia, quando Marge prova a esporre la sua visione dei fatti e i suoi sospetti a proposito di Ripley, il padre stesso del suo fidanzato scomparso la zittisce dicendole: ‘Marge, c’è l’intuizione femminile, e poi ci sono i fatti’.[2] Dal punto di vista epistemico quello che si verifica è un caso in cui la possibilità di trasmettere una conoscenza o quantomeno una ipotesi fondata viene ostacolata da un pregiudizio: che le donne non siano logiche, che non tengano conto dei fatti, affidandosi piuttosto a una dubbia e non meglio precisata ‘intuizione’.

     

    Non è difficile immaginare casi strutturalmente analoghi nella vita reale. Per esempio, nel secondo capitolo del suo libro Fricker riporta l’esperienza di due donne, una in una azienda in Egitto e l’altra negli Stati Uniti, i cui suggerimenti vengono costantemente messi da parte nelle riunioni aziendali. Similarmente alla situazione descritta nella famosa vignetta di Riana Duncan, una delle due donne riferisce che quando vuole che una certa procedura che ha in mente sia attuata passa un foglietto con il suggerimento a un collega maschio affinché egli lo presenti come suo, e questo aumenta significativamente le probabilità che il suggerimento si traduca in azioni concrete.

     

    Nei due casi, quello tratto dalla letteratura e quello reale, viene perpetrata una forma di ingiustizia, in quanto a una persona viene fatto un torto. L’ingiustizia in questione è epistemica perché si tratta di un torto relativo alla capacità di ragionare, acquisire conoscenze e trasmetterle. Generalizzando, una ingiustizia testimoniale si verifica quando alle parole di una persona viene data meno credibilità di quella che meritano a causa di un pregiudizio da parte dell’ascoltatore. Inoltre, il torto viene tipicamente perpetrato da qualcuno (per esempio un uomo) facente parte di un gruppo che ha tradizionalmente più potere socio-economico di quello di cui fa parte la vittima.

     

    Ingiustizia ermeneutica

    L’elaborazione del concetto di ingiustizia ermeneutica è uno dei contributi più originali e sorprendenti del libro di Fricker. La definizione più generale è la seguente: si tratta, come nel caso dell’ingiustizia testimoniale, di un torto fatto a qualcuno in quanto persona capace di conoscere, ma questo torto si verifica quando un ‘gap nelle risorse interpretative collettive mette ingiustamente qualcuno in una posizione di svantaggio nella comprensione delle proprie esperienze sociali’.[3] Cosa significa? L’esempio più eclatante offerto da Fricker (nel settimo capitolo del libro) si basa su quello che è realmente capitato a Carmita Wood, una impiegata al Dipartimento di Fisica Nucleare a Cornell University, negli anni settanta. Wood era diventata bersaglio dell’interesse sessuale del suo capo, il Professore Boyce McDaniel. Il capo di Wood aveva tenuto atteggiamenti osceni nei suoi confronti, come mimare platealmente atti sessuali davanti a lei.[4] Trovava inoltre occasioni per strusciarsi deliberatamente contro i suoi seni, e una volta l’aveva costretta in un angolo in ascensore baciandola sulla bocca contro la sua volontà. In seguito alle molestie ripetute, Carmita Wood aveva sviluppato una serie di disagi psicosomatici, aveva chiesto un trasferimento, che le era stato negato, in un altro dipartimento, e si era infine licenziata. Al momento di richiedere il sussidio di disoccupazione Wood si era sentita persa nel descrivere le motivazioni del suo licenziamento, citando infine ‘ragioni personali’. Il sussidio di disoccupazione le fu negato.

     

    Oggigiorno non avremmo difficoltà a classificare le disavventure di Wood: è stata chiaramente vittima di ‘sexual harrassment’. Tuttavia, il concetto di sexual harrassment non era ancora stato elaborato all’epoca (a Lin Farley viene attribuito il merito di aver contribuito a diffondere il termine, apparentemente coniato durante una seduta di autocoscienza nel 1975 alla quale partecipava anche Wood). Che Wood abbia subito una ingiustizia è chiaro. Perché è epistemica? A Wood venne fatto un torto in quanto essere capace di conoscenza, perché le risorse interpretative dell’epoca erano in gran parte tarate per rendere conto delle esperienze di altri gruppi dei quali lei non faceva parte, specificamente quello dei maschi. Essere in una tale situazione non solo rende difficile la comprensione della propria esperienza da parte della società, implica anche una difficoltà più insidiosa: diventa difficile per la vittima descrivere e rendere conto a sé stessa della propria esperienza e del proprio disagio.

     

    La caratterizzazione dell’ingiustizia ermeneutica va intesa sicuramente come un compito aperto. Quali sono le ingiustizie ermeneutiche del nostro tempo? Per fare un esempio, ultimamente alcuni tentativi sono stati fatti di descrivere le persone autistiche come afflitte da un caso di ingiustizia ermeneutica[5]; un altro caso possibile potrebbe essere l’esperienza delle persone transessuali. In generale, come spiegato da Fricker, le vittime dell’ingiustizia ermeneutica si trovano a fronteggiare situazioni in cui le risorse interpretative sono dirottate a favore di gruppi, tipicamente avvantaggiati sotto vari aspetti sociali, che non hanno interesse a che queste risorse collettive vengano ripensate e ridistribuite. La ricerca e la descrizione di tali situazioni è sicuramente una delle direzioni più interessanti in cui sviluppare le tesi di Fricker.

     

     

    L’impatto del libro

     

    Per spiegare l’impatto del libro (e delle ingiustizie che descrive) si può cominciare da una reazione abbastanza comune tra gli studenti, che occorre soprattutto verso l’inizio della lettura. Dopo aver tracciato a grandi linee l’idea di ingiustizia epistemica e aver fornito qualche esempio, capita di sentirsi rispondere qualcosa di questo genere, specialmente riguardo all’ingiustizia testimoniale: “Beh, ma non è ovvio …?”. In effetti è ovvio: a volte diamo alle persone meno credito di quanto dovremmo, per ragioni che hanno a che fare con i nostri pregiudizi. Eppure, nessuno prima di Fricker aveva descritto il fenomeno con tanta precisione e chiarezza, e tantomeno illustrato nel dettaglio le conseguenze a volte spaventose di queste ingiustizie, così come i modi per ridurle. Qui mi limito a illustrare alcuni aspetti.

     

    Tra epistemologica ed etica

    La giustizia e l’ingiustizia sono concetti solitamente elaborati nell’ambito della filosofia politica: i filosofi che lavorano in quel dominio investigano cosa significhi per una società o per delle politiche essere giuste. Nel fare questo, utilizzano una combinazione di ‘analisi concettuale’ (lo sforzo di dire in cosa consiste un certo fenomeno attraverso l’analisi della maniera in cui lo rappresentiamo nei nostri pensieri e discorsi) e descrizione ‘fenomenologica’ delle esperienze concrete delle persone, di come vivono ciò che percepiscono come giusto o ingiusto (per un esempio di come analisi concettuale e approccio descrittivo possano venire combinati si può vedere il primo capitolo di Sandel (2009)).

     

    Gli epistemologi, d’altro canto, tendono a occuparsi di una analisi astratta di concetti epistemici (soprattutto quello di conoscenza)[6], e più raramente si impegnano nello sforzo descrittivo di catturare le esperienze concrete di persone situate in particolari contesti sociali, che desiderano acquisire e trasmettere delle conoscenze. Inoltre, quando gli epistemologi parlano di valori, essi si limitano normalmente a valori come razionalità o coerenza, non occupandosi di valori come giustizia, o equità di risorse epistemiche e interpretative.

     

    L’innovazione di Fricker in relazione alla metodologia usata e al rapporto tra epistemologia ed etica è duplice. Da una parte, Fricker riconnette l’epistemologia con le esperienze concrete delle persone: persone dotate di capacità, il cui scopo è quello di acquisire e trasmettere conoscenze, ma il cui esercizio può essere facilitato o al contrario ostacolato da pratiche e situazioni sociali il cui ruolo resta inevitabilmente oscuro se ci si limita ad una analisi concettuale astratta della conoscenza in generale. Dall’altra parte, Fricker riconnette l’epistemologia con l’etica, e in particolare con il valore della giustizia.

     

    Le conseguenze dell’ingiustizia epistemica

    Il libro si intitola ingiustizia epistemica, non giustizia epistemica. Non è un caso: Fricker, così come Judith Shklar (1990) per esempio, ritiene che l’ingiustizia sia la norma, non l’aberrazione: in particolare, secondo Fricker ‘l’ingiustizia epistemica è una parte normale nella vita discorsiva, e proteste risentite contro di essa sono relativamente rare e sparpagliate’.[7] Magari si può essere tentati di pensare che in fondo ci sono ingiustizie ben peggiori di cui occuparsi più urgentemente che non quelle epistemiche. Tuttavia Fricker, e questo è uno dei suoi importanti contributi, mostra in modo estremamente convincente due cose.

     

    La prima è che spesso l’ingiustizia epistemica porta con sé altre forme di ingiustizia: nel caso di Carmita Wood questo è evidente (il sussidio di disoccupazione le viene negato, come se si fosse trovata disoccupata a causa di una sua negligenza invece che a causa di una ingiustizia). Le conseguenze sono molto più spaventose in uno dei casi di ingiustizia testimoniale descritti da Fricker, il quale, anche se basato su un romanzo, illustra molto bene come l’ingiustizia epistemica sia sistematicamente connessa ad altre piaghe sociali.

     

    Nel libro di Harper Lee (1960) To Kill a Mockingbird (tradotto in italiano come ‘Il buio oltre la siepe’) viene narrata la storia, ambientata in Louisiana negli anni trenta, di un ragazzo nero, Tom Robinson, accusato di aver picchiato e stuprato una ragazza bianca. Risulta evidente ai lettori, in quanto efficacemente dimostrato dal suo avvocato difensore, Atticus Finch, che il ragazzo è innocente (viene provato che l’aggressore doveva essere mancino, mentre il braccio sinistro di Robinson era fuori uso a causa di un incidente di lavoro). Tuttavia, nel clima razziale descritto dal libro, Robinson non viene creduto. In un passaggio cruciale, Tom Robinson deve spiegare perché si era fermato a parlare con la ragazza. Robinson risponde che si era fermato ad aiutarla, e quando gli viene chiesto perché si fosse dato questa pena senza ricevere alcun compenso spiega che si era sentito dispiaciuto per lei[8], perché lavorava più duramente di altri e nessuno l’aiutava.

     

    Dal punto di vista giudiziario la spiegazione di Robinson si rivela un disastro. Non viene giudicato né appropriato né credibile il fatto che Robinson possa sentirsi dispiaciuto per una ragazza bianca, in quanto il dispiacere presupporrebbe, secondo la struttura interpretativa descritta nel romanzo, una posizione di superiorità che un ragazzo nero non può avere. Per dirla con Fricker, ‘nel contesto di una ideologia razzista strutturata attorno a dogmi di superiorità bianca, il fondamentale sentimento etico della semplice simpatia umana viene distorto agli occhi dei bianchi così da apparire come poco più di un indizio di auto-percepita superiorità da parte del soggetto nero. A un uomo nero non è permesso avere sentimenti che implichino alcun tipo di vantaggio relativo ad una persona bianca’.[9]

     

    Robinson subisce evidentemente una ingiustizia epistemica: le sue parole non vengono credute per via di un pregiudizio razziale da parte di un gruppo con molto più potere sociale di quello hanno lui e il gruppo etnico a cui appartiene. Forse Robinson subisce anche un caso un po’ particolare di ingiustizia ermeneutica: il suo sentimento basilare di simpatia e compassione per la ragazza bianca risulta incomprensibile alla società (benché, diversamente da altri casi di ingiustizia ermeneutica, risulti comprensibile a Robinson stesso). Ma quello che è più importante sottolineare in questo contesto è che le conseguenze di questa ingiustizia vanno ben al di là di una generica offesa alle capacità intellettuali di Robinson in quanto persona capace di avere e trasmettere esperienze e conoscenze. La dimensione epistemica dell’ingiustizia è qui connessa ad una serie di altri fattori che rendono l’ingiustizia fatale: Robinson viene in effetti condannato per un reato che non ha commesso. Più in generale, come spiega Fricker, molte ingiustizie epistemiche hanno un carattere sistematico, nel senso che sono connesse a vari elementi nel sistema sociale in modo tale che la portata dall’ingiustizia ne risulta amplificata: ‘le ingiustizie testimoniali sistematiche sono quelle prodotte non da un pregiudizio qualunque, ma da quei pregiudizi che ‘tracciano’ il soggetto attraverso varie dimensioni di attività sociale—economica, educativa, professionale, sessuale, legale, politica, e così via. Essere soggetto a un pregiudizio di questo tipo rende suscettibile non soltanto all’ingiustizia epistemica ma a una gamma di ingiustizie differenti’.[10]

     

    Vi è anche un secondo modo di vedere che il ‘perimetro’ di una ingiustizia epistemica può essere molto esteso, e può delineare nella vita di un individuo un’area di sofferenza ampia con conseguenze molto importanti. Secondo una tesi a grandi linee aristotelica, l’essere umano è essenzialmente un essere razionale. Cosa significhi essere razionale è una questione che meriterebbe di essere trattata a parte, però presumibilmente include cose come l’essere coerente, essere capace di trarre conclusioni a partire da certe informazioni disponibili, e ancora più in generale usare le proprie capacità—dalla percezione, al ragionamento, all’immaginazione—per formarsi una immagine corretta della realtà. Ipotizziamo ora che la maggior parte della società o dei gruppi più socialmente influenti in essa neghino che certi individui posseggano queste capacità: che siano in grado di ragionare logicamente come nel caso di Marge, o che siano in grado di proporre piani sensati come nel caso delle donne nelle aziende. Immaginiamo che alle loro parole non venga data credibilità, come nel caso dei neri descritti in To Kill a Mockingbird. Sembra chiaro che alle persone che si trovano in tali situazioni viene implicitamente attribuita una natura che è meno che pienamente umana (almeno nel senso aristotelico del termine), proprio in quanto viene loro negata l’attribuzione di quelle capacità che costituiscono l’essere razionale.

     

    Quando si considerano le conseguenze dell’ingiustizia epistemica da questo punto di vista aristotelico che mette al centro l’idea che l’essere umano sia capace di conoscenza, un ulteriore aspetto viene alla luce. Supponiamo che alle parole di una persona venga sistematicamente negata credibilità fin dalla sua giovane età. Possiamo immaginare che la persona, se trattata in questo modo, si convinca di essere in effetti incapace di acquisire e trasmettere conoscenza. Di più: potrebbe convincersi di non essere in grado di acquisire conoscenze non solo riguardo al mondo circostante, ma anche riguardo a sé stessa: ai suoi desideri, alle sue aspirazioni, ai suoi stessi pensieri. Per prendere in prestito un esempio di Cristina Borgoni (2018), immaginiamo che una persona di colore in una società basata sulla schiavitù esprima il desiderio di essere libera. Non è difficile immaginare che alle sue parole non verrebbe dato peso, in parte perché la persona verrebbe ritenuta ignorante riguardo al suo stesso desiderio. Le sue parole verrebbero prese come espressione di ignoranza di sé, non conoscenza: è molto meglio per la persona stessa restare sotto l’ala protettiva dei bianchi, e quando ella esprime un desiderio di affrancamento non sa bene di cosa stia parlando—così, possiamo immaginare, verrebbero prese le sue parole. Magari la persona in schiavitù continuerebbe a essere convinta del proprio desiderio: in quel caso il danno non riguarderebbe la conoscenza della propria mente, ma piuttosto la possibilità di trasmettere queste conoscenze, come già visto in altri casi di ingiustizia epistemica. Tuttavia la persona potrebbe giungere dubitare di conoscere i suoi stessi desideri. Si troverebbe per tanto in una situazione di completa dipendenza non soltanto socio-economica ma anche epistemica: si tratterebbe di una abdicazione completa riguardo alla prerogativa di usare le proprie facoltà per formarsi una immagine del mondo, degli altri e di sé stessi.[11]

     

     

    Che fare?

     

    Spero che qualche lettore nel frattempo si sia convinto che l’ingiustizia epistemica è un fenomeno diffuso e potenzialmente molto pericoloso. Cosa fare per fronteggiarla? La domanda è difficile non solo perché questo tipo di ingiustizia pervade la società ma anche perché alcuni aspetti del nostro apparato cognitivo sembrano inevitabilmente favorire il suo insorgere. Fricker riconosce per esempio che tutti ci basiamo su degli stereotipi, e che questo è persino necessario al fine di processare una grande quantità di informazioni in tempo rapido. Supponiamo, come avviene senz’altro frequentemente, che io dipenda dalle informazioni datemi da qualcuno che non conosco o conosco poco. Come faccio a stabilire se fidarmi o meno? Sicuramente non posso analizzare la biografia dell’informatore, fargli dei testi cognitivi di qualche tipo per capire se è intelligente, condurre delle indagini per capire se è competente riguardo a un certo argomento, se ha un carattere affidabile, eccetera. Devo basarmi su un qualche stereotipo: classifico l’interlocutore come appartenente a un qualche ‘tipo’, e valuto di conseguenza se fidarmi o meno. Ma come posso fare ad assicurarmi che lo stereotipo sia grosso modo affidabile, e non per esempio un becero pregiudizio razzista?

     

    Fricker indica vari modi di ristabilire la giustizia epistemica, e qui ne cito brevemente due.

     

    L’immaginazione: l’immaginazione può avere un ruolo tanto nell’insorgenza di una ingiustizia epistemica che nel suo superamento. Spesso l’immaginazione gioca un ruolo nel determinare la nostra concezione di cosa significhi essere un individuo appartenente a un certo gruppo sociale: un uomo, una donna, una persona religiosa, e così via. Prendiamo il caso di una società sessista in cui ci si aspetta che le donne presenzino nei salotti senza veramente prendere parte attiva alla conversazione (che debbano essere viste più che ascoltate). Questa è una identità immaginata per le donne. Come sottolinea Fricker, si tratta più di immaginazione che di giudizi veri e propri, perché quando formuliamo un giudizio ci esponiamo a un certo tipo di domande: più precisamente, ci esponiamo al dovere di giustificare quello che diciamo. L’immaginazione tuttavia informa le nostre concezioni in modo più diretto e meno controllabile proprio perché l’atto di immaginare una cosa non è necessariamente soggetto alle stesse domande a cui le persone che formulano dei giudizi dovrebbero sapere rispondere.

     

    Ora, così come una identità immaginata può essere fonte di ingiustizia, può anche essere fonte di liberazione: si può per esempio immaginare un ruolo attivo per le donne; o ancora, si può immaginare che un gruppo di persone (un gruppo etnico di migranti di seconda generazione, supponiamo) che per un motivo o un altro non ha mai preso parte alla vita politica, possa ingaggiarsi in tale progetto; e così via. In questo contesto è interessante notare come Amia Srinivasan, nel suo libro The Right to Sex (2021), uno dei lavori recenti improntati al femminismo che ha avuto più eco, attribuisca implicitamente proprio all’immaginazione un ruolo fondamentale. In particolare, Srinivasan presenta il femminismo come uno sforzo di immaginazione volto a concepire una trasformazione radicale nel ruolo e statuto delle donne e di conseguenza una trasformazione altrettanto radicale della società nel suo insieme: ‘Il femminismo non è una filosofia, o una teoria, e nemmeno un punto di vista. Si tratta di un movimento politico volto a trasformare il mondo in modo irriconoscibile. Il femminismo chiede: cosa significherebbe mettere fino alla subordinazione politica, sociale, sessuale, economica, psicologica e fisica delle donne? La risposta: non lo sappiamo, proviamo e vediamo’.[12]

     

    La percezione: Il caso classico è quello del romanzo di Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn. Huckleberry è in compagnia di uno schiavo nero scappato e si sente pienamente cosciente del suo dovere di consegnarlo alle autorità affinché possa essere reso al suo legittimo proprietario. Eppure, ad ogni occasione di agire secondo ciò che ritiene essere giusto, si comporta in modo difforme e si astiene dal riconsegnare lo schiavo. Huckleberry ha evidentemente dei pregiudizi influenzati da vari fattori. Tuttavia, secondo una suggestiva interpretazione suggerita da Arplay (2003), che sottoscrive anche Fricker, la sua percezione rimane incontaminata, gli presenta semplicemente un essere umano come lui: la possibilità di una percezione che ‘vince’ contro un pregiudizio è per Fricker di importanza cruciale per ‘poter capire come il cambiamento sociale sia possibile, incluso il cambiamento sociale implicato nel riformare i nostri patterns di attribuzione di credibilità’[13].

     

    Le cose naturalmente sono più complicate. Non potrebbe darsi che le nostre stesse percezioni siano influenzate da pregiudizi? Questa obiezione naturalmente viene considerata da Fricker, la quale ritiene, di nuovo in linea con un approccio a grandi linee aristotelico, che l’educazione morale di un individuo consista in parte nello sviluppare una percezione ‘virtuosa’, che consenta per esempio alla persona di vedere come agire e cosa credere in una ampia gamma di situazioni.

     

    La questione di sapere se e in che misura le nostre percezioni siano indipendenti da ciò che già crediamo è tuttora intensamente investigata, e ci sono sia ragioni di propendere in un senso che in un altro. Ad esempio, nella famosa illusione Müller-Lyer, anche una volta che sappiamo che le linee sono della stessa lunghezza, continuano a sembrarci di lunghezze diverse. D’altra parte, nella così detta ‘face race illusion’ si viene presentati con due facce disegnate aventi la stessa luminosità, ma si ha spesso l’impressione che una delle due (quella rappresentata con tratti somatici tipici delle persone con un background etnico africano) sia più scura.

     

    Indipendentemente da cosa ci svelerà la ricerca empirica su queste faccende nei prossimi anni, il libro di Fricker continuerà sicuramente a stimolare e informare il dibattito su molti temi a cavallo tra l’etica e l’epistemologia. Non solo motiverà molti ricercatori a descrivere e comprendere più profondamente vari tipi di ingiustizia, per esempio quella ermeneutica, ancora relativamente poco esplorata, ma continuerà ad avere un impatto sociale importante al di là del mondo accademico grazie ai suoi suggerimenti per ottenere reali trasformazioni sociali.

     

     

    Riferimenti

     

    Arpaly, N. (2003) Unprincipled Virtue: An Inquiry into Moral Agency. Oxford: Oxford University Press.

    Borgoni, C. (2018). Authority and attribution: the case of epistemic injustice in self-knowledge. Philosophia, 47:293–301.

    Chapman, R., Carel, H. (2022). Neurodiversity, epistemic injustice, and the good human life. Journal of Social Philosophy. DOI: 10.1111/josp.12456

    Fricker, M. (2007). Epistemic Injustice. Oxford: Oxford University Press.

    Highsmith, P. (1955). The Talented Mr. Ripley. Coward-McCann. Trad. It., Prestini, M. A., Il talento di Mr. Ripley. Bompiani.

    Lee, H. To Kill a Mockingbird. London: William Heinemann, 1960. Trad. It., Mantovani, V. (2019). Il buio oltre la siepe. Feltrinelli.

    Minghella, A. (2000). The Talented Mr. Ripley. London: Methuen.

    Sandel, J. (2009). Justice: What’s the Right Thing to Do? Farrar, Strauss & Giroux. Trad. It., Gargiulo, A. Giustizia. Il nostro bene comune. Feltrinelli.

    Shklar, J. (1990). The Faces of Injustice. New Haven and London: Yale University Press.

    Spear, A. (2018). Epistemic dimensions of gaslighting: peer-disagreement, self-trust, and epistemic injustice. DOI: 10.1080/0020174X.2019.1610051

    Srinivasan, A. (2021). The Right to Sex. Bloomsbury. Trad. It., Zuppet, R. (2022) Il diritto al sesso. Rizzoli.



    [1] ‘a wrong done to someone specifically in their capacity as a knower’. (Fricker, p. 1)

    [2] ‘Marge, there’s female intuition, and then there are facts’. (Citato da Fricker, p. 9)

    [3] ‘a gap in collective interpretive resources puts someone at an unfair disadvantage when it comes to making sense of their social experiences’. (Fricker, p. 1)

    [4] ‘the eminent man would jiggle his crotch when he stood near her desk and looked at his mail’. (Fricker, p. 150)

    [5] Si veda ad esempio Chapman, Carel (2022).

    [6] Basti pensare alla mole di analisi concettuale dedicata a chiarire le condizioni necessarie e sufficienti per la corretta applicazione del concetto di ‘conoscenza’.

    [7] ‘… testimonial injustice is a normal part of discursive life, even though cries of resentment are relatively few and far between’. (39)

    [8] ‘I felt right sorry for her, she seemed to try more’n the rest of ‘em—’ (citato da Fricker, p. 24).

    [9] ‘In the context of a racist ideology structured around dogmas of white superiority, the fundamental ethical sentiment of plain human sympathy becomes disfigured in the eyes of whites so that it appears as little more than an indicator of self-perceived advantage on the part of the black subject. A black man is not allowed to have feelings that imply a position of any sort of advantage relative to any white person’. (Fricker, pp. 24—25)

    [10] ‘Systematic testimonial injustices, then, are produced not by prejudice simpliciter, but specifically by those prejudices that ‘track’ the subject through different dimensions of social activity—economic, educational, professional, sexual, legal, political, religious, and so on. Being subject to a tracker prejudice renders one susceptible not only to testimonial injustice but to a gamut of different injustices’. (Fricker, 27)

    [11] Casi in cui il soggetto rinuncia a basarsi sulle proprie facoltà perché la sua fiducia in queste è stata demolita sono a volte classificati come casi di ‘gaslighting’ (si veda per esempio Spear 2018).

    [12] ‘Feminism is not a philosophy, or a theory, or even a point of view. It is a political movement to transform the world beyond recognition. It asks: what would it be to end the political, social, sexual, economic, psychological and physical subordination of women? It answers: we do not know; let us try and see’ (Srinivasan 2021, ix).

    [13] ‘… this possibility of a subject’s unprejudiced perception of another human being winning out against his prejudiced beliefs is crucially important for our understanding of how social change is possible, including the social change involved in reforming our patterns of credibility judgement’. (Fricker, 41)